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Ascesa (e caduta?) dell’inflazione negli Stati Uniti
Prospettive di mercato

Ascesa (e caduta?) dell’inflazione negli Stati Uniti

Stefano Battel, portfolio maganer, ci offre un’analisi approfondita della situazione dell’inflazione negli Stati Uniti.
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11 MAG, 2023

Di Stefano Battel di Cherry Bank

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Dopo il rialzo di gennaio, l’indice PCE di base, che non comprende le componenti più volatili di cibo ed energia, anche se di poco è in calo. L’indicatore scelto dalla FED, per monitorare l’inflazione, è cresciuto del 4.6% su base annua, con un leggero rallentamento rispetto al tasso di crescita registrato nel precedente mese, rivisto al rialzo al 4.7%. 

Secondo il rapporto, i maggiori aumenti hanno riguardato le spese per l’abitazione e l’assistenza sanitaria. A parte l’aumento della spesa nei ristoranti e in altre attività di servizi, tutti gli altri settori mostrano segnali di rallentamento. L’andamento della spesa ha indicato che la narrazione di un consumatore “robusto e resistente” inizia a non reggere più. 

Eppure c’è preoccupazione che l’inflazione continui a mostrarsi maggiormente vischiosa specialmente nei servizi trainata da una crescita dei salari che rischia di mantenere la crescita dei prezzi al di sopra dell’obiettivo della Banca Centrale nel prossimo futuro. 

Per capire i possibili scenari futuri è necessaria una breve analisi sull'origine di questo ciclo di inflazione che l’economia sta affrontando.

L'origine del ciclo

Gli ultimi tre anni hanno rappresentato un periodo molto impegnativo per gli statistici che calcolano i tassi di inflazione. In tempi economici normali, i consumi delle persone seguono schemi abbastanza coerenti e pertanto, i tassi di inflazione possono essere calcolati in modo relativamente affidabile. Con l'inizio della pandemia prima che ha reso indisponibili l’acquisto di beni e servizi e le successive riaperture dopo, complicate dalle strozzature dell’offerta globale, la situazione è diventata molto più complicata e impegnativa. In un quadro già precario è infine giunta la crisi energetica come conseguenza dell'invasione dell'Ucraina da parte della Russia che ha temporaneamente portato i prezzi dell'energia (e dei generi alimentari) a livelli estremi con i consumatori costretti nuovamente a modificare i loro comportamenti di consumo. 

Volendo verificare se la lettura fin qui data sia corretta o meno la nota scomposizione nelle componenti core/non core non è sufficiente essendo necessario un ulteriore approccio che consenta di decomporre l’inflazione in base ai fattori di domanda e offerta. Inoltre faremo sempre affidamento all’indice PCE nella versione depurata dalle componenti più volatili come energia e cibo. La scelta è dettata dal fatto che, oltre ad essere la misura seguita dalla FED, come precedentemente detto, le voci come affitti ed edilizia abitativa rappresentano il 18% contro il 40% del CPI core. Quest’ultimo infatti potrebbe trarre in inganno in quanto anche piccoli aumenti dei prezzi degli affitti e delle case possono in linea di principio, avere effetti notevoli sull’inflazione complessiva.

Fonte: elaborazione su dati Bureau of Economic Analysis, Haver Analytics, Bloomberg basato su modello econometrico (VAR) . Il grafico sudivide le variazioni annuali dell'inflazione PCE di base in contributi che possono essere determinati dalla domanda e dall'offerta (rincari energetici ect), mentre il resto è contrassegnato come ambiguo (quello che il modello non è in grado di catalogare)

L’approccio suggerisce come la maggior parte dell'elevata inflazione nel periodo 2021-2022 è dovuta in gran parte ai problemi legati all’offerta, che infatti hanno contribuito per circa il 2.5% in più rispetto alla media pre-pandemica, mentre i fattori legati alla domanda sono stati superiori, sempre rispetto alla media pre-pandemica, dell’1.4%. Solamente la combinazione di pandemia, blocco globale, massiccio stimolo fiscale e impennata della domanda di beni ha dato il via alla crescita inflattiva che abbiamo assistito.

Con il tempo l’inflazione ha mostrato una tendenza al ribasso dovuta principalmente al contributo dato dall'offerta, mentre l'inflazione guidata dalla domanda è rimasta a livelli storicamente elevati avvalorando le preoccupazioni che l’inflazione di fondo possa essere di natura strutturale.

Ma è davvero così?

Le pressioni inflazionistiche sono destinate a rimanere oppure è lecito aspettarsi che il picco sia stato raggiunto? 

Proviamo a rispondere osservando l’andamento dei fattori che hanno fin qui guidato l’inflazione partendo da quelli legati all’offerta. 

Fattori legati alla domanda

A questo proposito ci basiamo su due indicatori che misurano le pressioni sulla catena di approvvigionamento, uno elaborato dalla FED di New York e l’altro da Citigroup. Entrambi dipingono lo stesso quadro con un forte miglioramento delle strozzature sull’offerta globale. Segnali incoraggianti arrivano anche dal fronte dei prezzi con l’indice Bloomberg Commodity in calo del 8.73% da inizio anno e, rispetto ai massimi toccati lo scorso giugno, del 24.63%. Il maggior calo è rappresentato dalla componente energetica seguita da metalli e industria. Solamente le soft commodities continuano a mostrare una leggera “forza relativa” (-11.88% dal picco).

A ulteriore conferma di questa lettura è utile osservare che i prezzi alla produzione sono tornati verso il 3.2% che rappresenta il tasso medio di crescita dal 1948. Tale indice è considerato un indicatore anticipatore dell'inflazione al consumo perché, nella maggior parte dei casi, quando i produttori pagano di più per i beni e i servizi, è probabile che trasferiscano i maggiori costi ai consumatori.

Se tale valore, in senso assoluto, può non dire molto, l’aspetto importante è che rappresenta il ritmo maggiore di disinflazione nella storia.  Osservando il grafico non si può non notare come la Federal Reserve corra un rischio elevato di superare il suo obiettivo di inflazione, in particolare se si propende che il crollo delle materie prime e dell’indice PPI sia da guida per il futuro. 

La maggior parte degli investitori non sembrava preoccuparsi troppo dell'inflazione 18 mesi fa, quando la massa monetaria aveva raggiunto un massimo storico. Ora l'inflazione è in primo piano, ma l'offerta di moneta (M2) è negativa. Esiste infatti una correlazione storica tra quantità di moneta e inflazione che si manifesta solitamente proprio con diciotto mesi di ritardo. Secondo la teoria della quantità di moneta, infatti l’inflazione dipende dall’offerta e dalla sua velocità. Attualmente stiamo assistendo al calo più poderoso dal 1960 il cui effetto è compensato solamente dalla crescita della velocità. Sebbene la quest’ultima sia troppo instabile per fare previsioni accurate è difficile pensare che possa proseguire il trend in ascesa, considerando anche il fatto che, rispetto all’entità del rialzo avvenuto, l’inversione della velocità è stato contenuto. Se la correlazione dovesse reggere anche questa volta la possibilità di vedere nuovi minimi non è remota. 

Come evidenziato dal grafico, a lato della scomposizione le maggiori pressioni provengono dai fattori legati alla domanda ma anche qui si iniziano a vedere i segnali che qualcosa sta cambiando. 

I salari e il mercato del lavoro

Un'inflazione sostenibile, trainata dalla domanda, richiede che i salari crescano in modo da poter sostenere i prezzi più alti. Com’è visibile dal grafico la crescita dei salari sta già rallentando. Secondo l'ultimo rapporto del Dipartimento del Lavoro la retribuzione oraria media è aumentata del 4.4% su base annua ad aprile, rispetto al 6% circa di un anno fa. Inoltre, secondo un nuovo rapporto del Pew Research Center, solamente 3 lavoratori su 10 chiedono uno stipendio più alto di quello inizialmente offerto dal datore di lavoro. 

Tale dinamica può essere spiegata da due fattori principali. Sappiamo che quanto più a lungo l'inflazione e le sue aspettative rimangono elevate, tanto più alte e durature saranno le pressioni sulla crescita dei salari ma entrambe le misure, di mercato e basate sui sondaggi, stanno diminuendo e andranno con il tempo ad alimentare il processo opposto. In secondo luogo è necessario un mercato del lavoro forte.  Sebbene il tasso di disoccupazione rimanga al di sotto del 4% il numero di perdite di posti di lavoro permanenti ha iniziato a crescere in modo significativo, soprattutto nella fascia dove i salari sono più remunerativi. Il grafico sottostante segnala come l'ultimo aumento sia stato molto elevato e in linea con quanto accaduto nelle precedenti recessioni.

L’attuale solidità è per lo più stata mascherata dalla continua richiesta di lavoratori per svolgere mansioni di livello relativamente basso. Pertanto il mercato del lavoro, nel suo complesso, non è così sano come sembra ad una prima lettura, facendo propendere per un ulteriore futuro calo della retribuzione oraria media.

L'indice LEI statunitense

A ulteriore supporto che la componente della domanda è destinata a rientrare uno degli indicatori anticipatori più popolari, l'indice LEI statunitense, che aggrega 10 serie sottostanti, tra cui le ore medie settimanali nel settore manifatturiero, le richieste iniziali di assicurazione contro la disoccupazione, i nuovi ordini di beni capitali e la fiducia dei consumatori è sceso al livello più basso dal novembre 2020, indicando un peggioramento delle condizioni economiche future. Lo stesso Conference Board prevede che: “la debolezza economica si intensificherà ulteriormente e si diffonderà maggiormente nell'economia statunitense nei prossimi mesi, portando a una recessione a partire dalla seconda metà del 2023".

Il mercato immobiliare

Infine anche il mercato immobiliare, che ha alimentato l’attività economica, e la crescita dell’inflazione si sta raffreddando. Storicamente, infatti, la crescita dei prezzi delle case (espressa come tasso di crescita su 12 mesi) ha preceduto l'inflazione degli affitti e l'inflazione OER (l'affitto equivalente al proprietario) di poco meno di due anni. È dimostrato quindi come la crescita dei prezzi delle case è stata storicamente utile per prevedere i tassi di inflazione degli affitti e dell'OER vista l’elevata correlazione.

Data la recente frenata, con il prezzo mediano di vendita delle case esistenti sceso dello 0,95% rispetto all'anno precedente, non è illusorio prevedere un futuro calo di queste componenti abitative che si ripercuoterà sull'inflazione complessiva.

Conclusione

Ricapitolando, gli shock dell’offerta hanno avuto effetti particolarmente rilevanti durante il periodo di crescita dell’inflazione contribuendo maggiormente, rispetto alla componente della domanda, nonostante quest’ultima sia al suo apice, all’inflazione complessiva.  Nel complesso gli shock dell’offerta sono stati spesso la causa di forti oscillazioni dell’inflazione. Al contrario gli shock negativi della domanda tendono ad esercitare pressioni al ribasso durante le recessioni. Quest’ultimi sono stati particolarmente consistenti durante la Grande Recessione.  

A meno che non si verifichino ulteriori shock di domanda o offerta (positivi) o una combinazione di entrambi, come avvenuto dopo la pandemia dove l’inflazione è stata alimentata da una combinazione di shock dell’offerta, causato dal blocco delle catene di approvvigionamento, e di domanda repressa amplificata da cicli di stimolo fiscali, il problema inflazionistico è destinato a rientrare ai livelli degli anni scorsi, presentando carattere di natura transitoria.  Pertanto non crediamo che il periodo attuale sia una ripetizione degli anni ’70, soprattutto alla luce di quanto sta accadendo al settore bancario. 

A nostro avviso, entro la fine del 2023, recessione, rallentamento della crescita dei salari, discesa dei prezzi immobiliari e calo dell’inflazione sono lo scenario più probabile.

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